La terra messa sotto i piedi

A Molfetta, il suolo non è una risorsa. In vent'anni, 315 ettari edificati e sottratti per sempre all’agricoltura. Dati e rimedi mancati di un danno non più reversibile

Testi di Antonello Mastantuoni, Lorenzo Pisani, Lella Salvemini
Video a cura di Emiliano Altamura, Massimiliano Piscitelli, Tiziana Ragno

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Le aree dismesse a Molfetta

Dal riuso una nuova vita e risparmio di suoli

di Lella Salvemini

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Non si fa con i ‘se’ la storia e neppure l’urbanistica e la politica, ma grazie al lavoro di due giovani ingegneri molfettesi, Loredana de Gennaro e Pasquale de Palma, possiamo farci un’idea di come avrebbe potuto essere Molfetta se si fosse scelto di riqualificare piuttosto che costruire e costruire e ad ancora costruire.
Di come potrebbe essere la città nei prossimi anni, se le politiche urbanistiche cambiassero direzione.
Loredana e Pasquale per la loro tesi di laurea hanno individuato, misurato e comparato le zone dismesse presenti sul territorio, nello specifico i palazzi abbandonati, le aree mercatali, gli edifici industriali e artigianali, gli spazi non costruiti in quartieri già edificati, limitandosi alla Molfetta urbanizzata.
Li hanno pazientemente individuati, censiti, misurati e poi calcolato quanta campagna sarebbe stata risparmiata se fossero stati recuperati e riusati. Pur considerando la complessità delle dinamiche di trasformazione urbanistica e della moltitudine dei fattori che influenzano il sistema urbano, il lavoro di tesi ha avuto come obiettivo quello di evidenziare il peso che il fenomeno del recupero delle aree in abbandono può avere sull’espansione urbana. Non si pensi che la questione del recupero del già esistente sia solo una questione ecologista: nuovi quartieri pesano sul bilancio della città, comportano strade, raccolta spazzatura, illuminazione, trasporto pubblico e vogliono dire maggiori distanze, ripensamento delle modalità di interazione e aggregazione.

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I siti dismessi nel territorio urbano di Molfetta*

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Le aree incolte in trasformazione nel territorio urbano di Molfetta*

Basta guardare le planimetrie, in cui le aree abbandonate, censite all’ottobre 2013, sono colorate in rosso, per capire che si tratta di spazi importanti. I due giovani ingegneri li hanno suddivisi in residenziali, non residenziali e aree indifferenziate, ovvero quelle che non hanno o che non hanno mai avuto una destinazione d’uso, con l’obiettivo di calcolare quanta volumetria possa essere recuperata, se solo si attuassero delle politiche di recupero del dismesso, sfruttando appieno le capacità insediative che il tessuto urbano possiede, caso mai a qualche urbanista e/o politico venisse in mente di pensare a una nuova espansione.
E per farsi capire anche dai non addetti ai lavori hanno utilizzato una chiara unità di misura, conteggiando in campi di calcio la superficie destinata alle nuove zone di espansione e in grattacieli la volumetria prevista all’interno di suddette aree.
Fatto il censimento, quantificate le aree dismesse, il primo dato ricavato è questo: ci sono circa 223.494 metri quadri di superficie di edifici abbandonati, diroccati, dismessi che potrebbero essere recuperati, rigenerati e avere una nuova destinazione. Per di più, essendo già in città, non avrebbero bisogno di opere di urbanizzazione primaria. Strade, luce, fogne e tutto quanto serve attorno a un palazzo ci sono già, consentendo un notevole abbassamento dei costi. Per quantificare la volumetria edificabile in queste aree i due ingegneri hanno ipotizzato l’utilizzo dell’indice di fabbricabilità previsto dal Piano Regolatore per le zone di completamento B2, cioè 1,5 metri cubi per metro quadro con il risultato che si avrebbero a disposizione 335.241 metri cubi di volumetria.

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Le volumetrie reperibili con: recupero di volumi nel centro storico, edificazione in aree dismesse e realizzazione di sopralzi*

Loredana de Gennaro e Pasquale de Palma non si sono limitati a censire e calcolare, ma hanno avanzato proposte: altra campagna molfettese potrebbe essere risparmiata se si avviasse una politica di soprelevazione degli edifici dell’area urbana. Individuando quei quartieri di Molfetta dove questo potrebbe esser fatto senza pesare troppo su una densità abitativa già alta, se ne ricaverebbero altri 342.924 metri cubi di volumetria. Se a questi si aggiungono 69.990 metri cubi ancora recuperabili nel centro storico, si ottiene una somma totale – nuova edificazione in edifici abbandonati, soprelevazioni, recupero del centro storico – di 748.155 metri cubi. Secondo il Piano regolatore ancora in vigore, il fabbisogno di volumetria per la città sarebbe di circa 1.219.000 metri cubi. Fatta la differenza, cioè recuperando il recuperabile e abbellendo la città, che certo non ci guadagna da edifici diroccati e aree lasciate in abbandono, il fabbisogno si ridurrebbe a solo 470.845 metri cubi. Un notevole risparmio di suolo necessario alla nuova edificazione.

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Le aree potenzialmente sottraibili alla nuova edificazione*

*Tutte le mappe e i grafici qui pubblicati provengono da:
- Loredana de Gennaro, Il progetto nel paesaggio dell’abbandono. Il riuso dell’ex pastificio Caradonna a Molfetta. Tesi di laurea in Ingegneria Edile – Architettura, Politecnico di Bari, a.a. 2013-2014.
- Pasquale de Palma, Il progetto nel paesaggio dell’abbandono. Il riuso dell’ex Cementificio Gallo a Molfetta. Tesi di laurea in Ingegneria Edile – Architettura, Politecnico di Bari, a.a. 2013-2014.
Si ringraziano gli autori per la gentile concessione.

 

Fabbricando case

Perché ripartire dai siti abbandonati

a cura di Emiliano Altamura, Massimiliano Piscitelli, Tiziana Ragno

 

La corsa del topo

Molfetta, l’urbanistica e le occasioni mancate

di Antonello Mastantuoni

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Se volete abbracciare in un unico colpo d’occhio la storia degli ultimi cinquant’anni di urbanistica a Molfetta andate in via Renato Guttuso. Vi sembrerà che le nuove palazzine, quelle sorte dove poco tempo fa c’era la “Pal. Bertig Fonderie e Smalterie Spa”, stiano lì da sempre, con le loro forme quasi indistinguibili da quelle dell’adiacente quartiere Arbusto costruite sul finire degli anni Settanta. Anzi, seppur logore, quelle più vecchie mostrano nel disegno, nella disposizione spaziale, in alcune scelte di utilizzo degli spazi comuni almeno una tensione, certo lieve, verso un futuro che si immagina migliore. Quelle nuove, invece, sembrano stare lì a testimoniare un tempo disseccato, una Storia che non va più da nessuna parte e che può solo produrre ripetizioni meccaniche e inesorabili.
Se c’è una cifra che marca la recente storia urbanistica di Molfetta questa è l’inevitabilità. Come in una tragedia antica, dove tutti i protagonisti comprendono benissimo le immani sciagure che stanno contribuendo a innescare eppure non possono né vogliono fare nulla per scongiurarle e anzi con parabole perfette ci si precipitano dentro, come falene attirate dalla fiamma.
Quello che segue è un articolo scritto nel marzo di nove anni fa. Il lettore non avrà difficoltà a constatare che quel che veniva annunciato si sarebbe poi puntualmente verificato, ma la scelta di ripubblicarlo non è certo dovuta alla volontà di rivendicare all’autore chissà quali straordinarie capacità divinatorie, al contrario per mostrare quanto facile fosse all’epoca vedere quel che si andava preparando.
Oggi non è affatto difficile vedere, cristallizzate nella forma che ha assunto la città, le direttrici dei flussi di danaro attivati dalle scelte politiche degli ultimi vent’anni. Le nuove grandi aree residenziali si contrappongono allo svuotamento e degrado della maggior parte delle aree di vecchia costruzione mentre il centro storico è diventato un territorio conteso fra abitazioni di lusso e chiassoso divertimento notturno. L’espansione urbana a fronte di una popolazione che si riduce ha determinato la crescita sempre meno sostenibile dei costi di manutenzione stradale, di pulizia e di illuminazione; l’ampliamento delle reti idriche, elettriche e fognarie una inevitabile dispersione e quindi maggiori consumi e inquinamento delle falde; la pressoché assenza di un servizio di trasporto pubblico rende per i cittadini indispensabile l’uso della macchina che finisce per determinare i modi e le possibilità di ogni rapporto sociale.
Ma quello che soprattutto colpisce e ferisce, e che nell’articolo già si preannunciava, è la scarsissima qualità del costruito. Alla assoluta mancanza di criteri di sostenibilità ambientale nella costruzione degli edifici (scatole di cemento che si differenziano da quelle costruite negli anni settanta solo per qualche tinteggiatura di gusto improbabile) si unisce una pianificazione urbanistica che facendo dell’automobile la misura di tutte le cose ha pressoché dimenticato di prevedere spazi pedonali, aree verdi e piste ciclabili. A chi va attribuita la responsabilità di questa bruttezza senza fine? Certo alla politica, ma non solo: è tutta la città che dovrebbe interrogarsi sul perché non sia riuscita a comprendere quel che stava accadendo e a cambiare rotta, cominciando dal chiedersi perché sia così clamorosamente mancato il ruolo del credito nell’orientare una economia virtuosa e sostenibile, quando invece ce n’erano tutti i presupposti. Certo nel marzo del 2006 non erano in molti a immaginare quello che sarebbe successo di lì a qualche mese con la crisi dei subprime e tutto quello che sarebbe venuto dopo; ma che scommettere sulla roulette finanziaria piuttosto che sullo sviluppo locale fosse un modo miope di guardare al futuro non avrebbe dovuto essere difficile da capire.

 

La città che verrà

Un articolo scritto nove anni fa**

di Antonello Mastantuoni

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Nel 1991 Molfetta contava 66.889 abitanti e cresceva alla media dello 0,22% all’anno: si prevedeva che la sua popolazione nel 2007 sarebbe arrivata a 69.300 abitanti. Nella redazione del PRG questo dato, insieme ad un numero di vani ritenuto già insufficiente per la popolazione residente, si tradusse nella “previsione di fabbisogno” di 14.400 stanze: più o meno 3.500 nuovi appartamenti.
Oggi Molfetta conta probabilmente poco più di 60.000 abitanti (il censimento del 2001 ne segnala 62.546, ma nel 2002 erano già ridotti a 61.768: sembrano essere circa 600 gli abitanti che lasciano Molfetta ogni anno).
Il rapporto vani/abitanti è passato dallo 0,86 del 1991 allo 0,80 odierno e, se dovesse rimanere inalterata l’attuale dinamica demografica, a completamento del piano tale rapporto si avvicinerà allo 0,65 a fronte di un previsto 0,75.
È opinione diffusa quella secondo cui la realizzazione di tante nuove abitazioni comporterà due fenomeni: il rientro di molti fra i molfettesi che si erano trasferiti nelle città vicine negli anni passati proprio a causa della mancanza di abitazioni adeguate e a prezzi sostenibili e il calo dei prezzi delle abitazioni a causa della nuova grande offerta di case. Personalmente nutro parecchi dubbi sulla attendibilità di questo scenario.
È evidente intanto che i due fenomeni, se pure si dovessero verificare, si attenuerebbero reciprocamente. Inoltre negli ultimi anni le dinamiche demografiche delle città vicine non registrano più incrementi tali da confermare la tesi del trasferimento.
Infine una osservazione da fare è quella, banale, per cui non esiste un prezzo intrinsecamente elevato per una casa, ma che il valore dell’immobile è invece sempre da riferirsi alla capacità che ha l’economia di sostenerlo: se non fosse così, infatti, nessuno andrebbe ad abitare a Roma o a Milano, per non dire di Londra o Hong Kong.
Il fatto è che i molfettesi non vanno via dalla nostra città semplicemente perché i prezzi delle case sono troppo alti; vanno via piuttosto perché non c’è lavoro. E perché non solo non si possono permettere di affittare o comprare una casa, ma probabilmente addirittura di mangiare. I molfettesi sono tornati ad emigrare, come nei primi anni del secolo scorso, come negli anni Venti, come negli anni Cinquanta e Sessanta: siamo di fronte ad un fenomeno migratorio potente. Che in realtà forse non era mai cessato, mascherato com’era dall’emigrazione bianca degli imbarcati e degli insegnanti.
La tabella che segue credo sia sufficientemente eloquente: in essa sono riportati in migliaia di lire quelli che erano nel 1999 i redditi lordi per abitante.

Molfetta 16.797
Barletta
25.294
Bisceglie              
24.909
Trani                    
23.807
Terlizzi                
19.505
Bitritto                 
16.728
Spinazzola 23.163
Bari                     
42.001

 

Si aggiunga a questo il dato drammatico del totale degli occupati: solo il 21,6 % a fronte di una media provinciale che supera il 35%.
Nelle banche molfettesi però ci sono molti soldi. Soldi che non vengono impiegati in loco (nel 2002 il rapporto depositi/sportelli era a Molfetta di 22,328 milioni di euro a fronte di una media regionale di 18,429: mentre il rapporto impieghi/sportelli era di 14,457 a fronte di una media pugliese di 17.271).
Il quadro che viene fuori è quello di una città la cui popolazione è nettamente spaccata in due: una parte relativamente ricca e una decisamente povera. Ma la parte relativamente ricca si va progressivamente riducendo e sembra che l’acquisto di una casa (a volte di una seconda casa) sia per molti il tentativo estremo di cercare di garantirsi una sicurezza in un futuro che appare sempre più incerto. Insomma sembra che il risparmio verrà riconvertito nel mattone da parte di un ceto medio che si sta progressivamente impoverendo e i cui figli sono emigrati o in procinto i farlo.
Lo scenario che mi sembra più probabile è quindi quello di un aumento delle case sfitte, perché non ci sarà l’incontro fra i canoni richiesti e la capacità di spesa, e l’aumento di case sul mercato che resteranno invendute per la stessa ragione: chi vende una casa non è disposto a farlo a prezzi inferiori rispetto a quanto l’ha pagata (e ci sono anche le agenzie immobiliari che hanno un ruolo importante nel tenere alto il prezzo).
Quello che senz’altro si può dire è che l’attuazione di questo piano regolatore è stata una straordinaria occasione persa clamorosamente. 3.500 appartamenti da fare tutti insieme costituiscono uno sforzo enorme per la nostra città: si pensi che a Roma nello stesso periodo di case se ne stanno costruendo 5.000. Si tratta una mobilitazione di capitale ed energie umane straordinaria che però alla fine avrà provocato solo il trasferimento di soldi dalle tasche di un ceto medio che si sta impoverendo a quelle di costruttori e proprietari terrieri senza che a questo sforzo possa seguire uno sviluppo per la nostra città. I capitali torneranno a dormire nelle banche e ad essere impiegati al nord. Inseguiti dai giovani molfettesi in cerca di lavoro.
Si poteva fare diversamente? Sicuramente sì: provate per esempio ad immaginare se le norme edilizie avessero imposto alti standard di risparmio energetico alle costruzioni. Provate ad immaginare se avessimo imposto la costruzione di palazzine autosufficienti o quasi energicamente, con sistemi di riciclo dell’acqua e dei rifiuti. Avremmo fatto cresce una generazione di operai, tecnici e progettisti nuova che avrebbero trovato sicuramente spazio sul mercato. Ma le case sarebbero costate di più, si obietterà. No, perché il costo maggiore sarebbe stato ricompensato dal risparmio sulle bollette. E quel risparmio avrebbe potuto essere finanziato dalle banche che avrebbero finalmente trovato impieghi nella nostra città.
Senza contare che case di qualità mantengono assai meglio il loro valore negli anni.
Ci troveremo invece tra non molto anche con il grande problema delle imprese e dei 2.000 edili da riconvertire.
Anche se il prezzo delle case a Molfetta negli ultimi anni è salito in maniera sensibilmente inferiore rispetto a quanto non sia accaduto nelle città vicine, sembra che si stiano accumulando molti elementi per far presagire che la bolla speculativa sulle case che contraddistingue la nostra città stia per sgonfiarsi. Ma badate bene che non sarà un bene per nessuno: basti pensare a chi avrà contratto un mutuo per un appartamento il cui valore potrebbe essere ormai assai inferiore rispetto al debito da ripagare. O a chi ha ricevuto prestiti dando in garanzia immobili. O, comunque, a chi proprietario si ritroverà con un valore del proprio appartamento decurtato. Ma quando accadrà? Probabilmente quando i nostri figli emigrati in qualche altra parte d’Italia riterranno più utile vendere quello che hanno a Molfetta per comprare casa altrove.

** Questo articolo è stato scritto nel mese di marzo 2006.


2015, i dati: la demografia e il valore degli immobili a Molfetta

La popolazione di Molfetta al 31 dicembre 2013 era di 60397: sostanzialmente stazionaria dal 2006 ma con un aumento sistematico della fascia di età over 65 che oggi supera il 22,5%, di un punto superiore a quella italiana, e una riduzione di quella compresa entro il 14 anno di età che adesso è di 13,2% un po’ al di sotto della media nazionale
http://www.tuttitalia.it/puglia/15-molfetta/statistiche/popolazione-andamento-demografico/

Il reddito medio è salito da 7.719 euro del 2006 a 9.343 del 2011, ma il numero degli occupati non sembra essersi spostato di molto dal drammatico 21,6% di cui si parla nell’articolo, segno dell’ulteriore allargamento della frattura sociale: i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Nella nostra città il metro quadro è oggi è valutato 1.600 euro. A Giovinazzo 1.800.
http://www.immobiliare.it/guida-immobiliare/Puglia/Molfetta.html


Cemento su cemento

Ma in Italia il 22% degli alloggi è vuoto

di Lorenzo Pisani

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Dimenticate il Colosseo, il David, i virtuosismi del Bernini, l’eleganza di Giò Ponti. Il simbolo dell’Italia da oltre sessant’anni è la gru. Slanciata, svetta sul paesaggio. Non vola, ma macina terra.
La gru è simbolo dell’Italia del fare, di tutto quello che oggi il nostro paese riesce a fare: cantieri. Si continua a costruire, inesorabilmente, come se l’orizzonte non avesse limite. I terreni agricoli si fanno quartieri, le città crescono a dismisura, si sfiorano. E alle prime piogge la natura chiede il conto.
Non è una questione meramente nostalgica, da fondamentalisti del verde, da “via Gluck de’ noantri”. L’Italia è fin troppo affollata di alloggi e, nonostante questo, tanti se ne aggiungono ogni giorno. E tanti sono vuoti, sfitti, inutilizzati.
Lo dicono i numeri del censimento con cui l’Istat ogni dieci anni fotografa il paese.

Nel 2011 sono stati censiti 14.515.795 edifici e complessi. A guidare la classifica, la Lombardia con 1.761.815 edifici, il 12,2% del totale nazionale. Seguono Sicilia (1.722.072), Veneto (1.222.447), Piemonte (1.130.742), Puglia (1.091.133), Campania (1.049.459), Emilia Romagna (975.359) e Lazio (949.101).

Il numero delle abitazioni ammontava a 31.208.161. Il 77,3% era occupato da almeno un residente, il restante 22,7% costituito da abitazioni vuote o occupate solo da persone non residenti.
In testa alla graduatoria per abitazioni non occupate da residenti la Valle d'Aosta (50,1%), seguita da Calabria (38,8%), Molise e Provincia autonoma di Trento (37,1%).

Gli alloggi in Puglia nel 2011 erano 2.037.542, di cui 1.517.101 abitati da almeno una persona residente. Non occupate o occupate solo da persone non residenti risultavano 520.441 abitazioni.

I dati del censimento si intersecano con quelli dell’economia italiana al tempo della crisi. Il 2014 è stato l’ottavo anno consecutivo di fase recessiva per il settore delle costruzioni. La caduta è stata in parte frenata dalla crescita degli investimenti nel rinnovo delle abitazioni, incentivati dal governo.

Neanche il declino demografico (l’Italia con una media di 1,42 nascite per donna è uno dei paesi con il più basso tasso di natalità al mondo) è riuscito a rallentare la crescita dei volumi. Negli ultimi dieci anni il numero degli edifici e dei complessi è aumentato del 13,1%.
Esperti di marketing immobiliare forniscono la spiegazione: la domanda sociale non è più il motore delle betoniere. A trainare il comparto è la trasformazione della rendita fondiaria in immobiliare e infine finanziaria.

La matematica non è un’opinione, ma origina opinioni, talvolta mobilitazioni. Come quella che vede un centinaio di associazioni riunite nel forum “Salviamo il paesaggio”.
Con Arci, Fai, Legambiente, Lipu, Italia Nostra, Touring Club, Wwf, Fondazione Campagna Amica (Coldiretti), Slow Food, Sigea (Società italiana di geologia ambientale), Eddyburg (sito web di urbanistica, società, politica), si sono schierati anche Rifondazione comunista, Sel, privati cittadini. Tutti per chiedere un censimento capillare, in ogni comune italiano, che metta in luce quante abitazioni e quanti edifici produttivi siano già costruiti ma non utilizzati, vuoti, sfitti.

Un gruppo di oltre 150 persone (tra cui amministratori locali, architetti, urbanisti, professionisti del settore) ha elaborato una scheda, recapitata a tutti gli 8.057 comuni italiani. Hanno risposto in 533, appena il 6.6% degli enti. In Puglia in 12. Due nella provincia di Bari: Alberobello e il capoluogo.
Nel paese dei trulli sono 360 le abitazioni vuote o non utilizzate.Nella città di San Nicola non è stato possibile effettuare un censimento. Questa la risposta, datata 9 luglio 2012, della Ripartizione servizi demografici del Comune: «Non è pensabile ricorrere allo stato attuale della struttura ordinaria dell’Ufficio Statistica che conta solo 5 rilevatori che svolgono il lavoro ordinario per la rilevazione dei prezzi al consumo (fitti, costo della benzina, ecc.) né all’impiego di personale esterno (con quale finanziamento?). Alla luce di quanto esposto, per cause di forza maggiore, indipendenti dalla nostra volontà, comunichiamo l'impossibilità di procedere all’avviamento di quanto richiesto». «Ci riserviamo, comunque, di riferire i dati del censimento della popolazione relativi alle abitazioni appena pervenuti dalI’Istat», concludeva il Comune. Ma per quello bastava e basta un click.